Sfide e successi d’inclusione di un pediatra nei nostri Spazi Mamme

Immagina di perdere la rete di amicizie, la lingua, tutto ciò che riguarda la tua terra. Ed ora pensa a come potresti affrontare il tutto nei panni di una famiglia straniera che ha bisogno d’aiuto e di cure mediche per il proprio bambino. Riccardo, pediatra volontario nel nostro Spazio Mamme di Torre Maura a Roma, ci racconta sfide e successi che ha trovato nell’operare in un contesto di inclusione

  • Quali sono le principali criticità (non in termini sanitari) che incontra nei bambini stranieri che ha occasione di visitare e nelle loro famiglie?

Negli occhi di questi bambini e delle loro famiglie, che hanno perso talvolta d’improvviso la rete di amicizie, la lingua ed insieme i sapori e i colori della propria terra, non è difficile leggere quel commovente sforzo di adattamento che investe i migranti nelle prime fasi di arrivo e che porta il nome di stress da transculturazione.


Poi, nelle fasi successive e se non accolti in modo adeguato, è facile per loro sprofondare in condizioni di marginalità e povertà, reale e culturale. Minori vulnerabili, invisibili, esclusi. Se i genitori non hanno denaro per acquistare le medicine o un apparecchio per aerosol né hanno gli strumenti culturali per capire il dosaggio di un farmaco, i bambini saranno curati male e un attacco d'asma o una gastroenterite finiscono per aggravarsi per ragioni non solo sanitarie, ma sociali. 


Lavorando in luoghi di cura posti sulla frontiera questi segnali - che il centro spesso tarda a cogliere - sono ben percepibili. Segnali di aiuto, criticità silenziose, emergenze invisibili che possono diventare drammatiche. 

  • Quali sono gli ostacoli che incontrano i bambini stranieri?

Sono molte le difficoltà che questi bambini affrontano. È una vera corsa ad ostacoli destinata ben presto a consumare - come accade per la pila dei nostri cellulari - quella carica di salute e di speranza con cui sono arrivati ed infrangere il sogno dei loro genitori di offrire ai propri figli una vita migliore.
Sono ostacoli oggettivi legati a degrado, distanza e difficoltà linguistiche, ma anche a barriere burocratiche e giuridiche che sarebbero risolvibili. Tutti ostacoli che impediscono un pieno accesso alle cure. 


Eppure ci sono gesti che possono ferire ancora di più un bambino straniero!


Perché Winta, bambina africana di 8 anni (il nome è di fantasia) rifiuta di andare a scuola? Era una bambina intelligente e motivata. “Sai dottore, l’altro giorno mi hanno aperto le finestre in faccia quando sono entrata, e allora ho capito che avevo un odore cattivo…”. Quel processo di auto-esclusione sociale messo in atto per superare la vergogna non è forse il più preciso indicatore di ciò che accadrà poi, di quell’inevitabile futuro conflitto tra etnie e culture, tra centro e periferie? Ce la farà Winta a superare quelle ferite?
Molti dei bambini che ho avuto in cura non li ho più visti, perché ripartiti per altre città o ormai diventati grandi. La loro resilienza avrà funzionato? O saranno diventati - come mille altri, compresi moltissimi bambini italiani poveri - farfalle dalle ali di piombo il cui volo sarà sempre più basso, più faticoso e più lento dei loro coetanei nati in famiglie agiate, serene, integrate? 

  • Esistono delle buone prassi che andrebbero diffuse e condivise nella presa in carico dei bambini più vulnerabili? 


Sono molte le strategie possibili e tutte si ricollegano all’idea del rispetto dei diritti fondamentali dei bambini da garantire a tutti, soprattutto ai più vulnerabili. Poter frequentare la scuola, il diritto alle cure fin dai primi giorni di vita, non subire discriminazioni, la parità di diritti per bambine e bambini, avere spazi dove mamme e bambini di ogni cultura possano giocare, conoscersi ed incontrarsi.  


Ma c’è un punto chiave che, a mio parere, deve illuminare ogni buona prassi. È quello di guardare ai bambini come ad un soggetto collettivo, un piccolo popolo da tutelare ad ogni costo e che ci appartiene come il più straordinario patrimonio dell’umanità. 


Fissati i diritti, per la mia esperienza la strategia migliore è quella di fare rete. Nella battaglia in difesa dei bambini vulnerabili non c’è spazio per i solisti ed è vincente l'orchestra, la stima tra operatori, lo scambio di saperi e competenze. Per questo ritengo molto prezioso quel ruolo di coordinamento e di apripista di cui Save the Children, oltre alla sua storica mission in difesa dei bambini di tutto il mondo, si è fatto carico in molte periferie italiane. 

  • C’è una misura che, se adottata subito, potrebbe veramente cambiare le cose e facilitare la vita alle famiglie più vulnerabili?

Sarebbero molte le misure da adottare per una efficace presa in cura di tutti i bambini e che dovrebbero rappresentare il fiore all’occhiello di una azione politica e di governo responsabile e matura. Ogni polis del futuro non sarà abitata proprio da chi adesso è solo un bambino?


Dal mio osservatorio ritengo che la misura fondamentale sarebbe la concessione del pediatra di famiglia ad ogni bambino. Subito e senza pastoie burocratiche. So che è una delle battaglie di Save the Children. 
Non poter essere preso in cura dopo l’uscita dal punto nascita dell’ospedale rappresenta per i minori vulnerabili un gap pesantissimo: mancata continuità terapeutica, pochi controlli, profilassi e visite specialistiche limitate, ricorso incongruo al Pronto Soccorso.


Ma oggi che le modalità di accudimento delle diverse aree del mondo si vanno incrociando per quel cross-over transculturale senza precedenti, negare il pediatra porta ad una ulteriore grande occasione mancata. Le nostre sale d’aspetto non sono infatti dei veri laboratori multi-etnici sul campo, dove lo scambio di differenti tradizioni di maternage può avvenire senza problemi? 


Ci sono molte iniziative che possono favorire questo processo. Nello studio di un mio collega chiede di raccontare fiabe alle madri di diversi Paesi del mondo, ad esempio, ma esperienze simili accadono anche nelle mie sale d’attesa e dovunque i bambini giocano insieme, capaci come sono di tessere legami e relazioni positive. A patto che permettiamo loro di incontrarsi. 
La conflittualità tra etnie e culture non è innata ma culturalmente indotta, e mamme e bambini ci dimostrano con i fatti che una società multietnica non è affatto impossibile, se si comincia per tempo. 

  • Un episodio da raccontare, della sua esperienza professionale, che la rende felice di fare il pediatra.

Sono ormai innumerevoli gli episodi in cui - costretto dalle circostanze - mi sono dovuto inventare strategie di cura tagliate su misura, spiegazioni terapeutiche basate su disegni e fatte di codici para-verbali, gestuali, mimici. Con risvolti comici, a volte! 


Si è grati per questo lavoro anche per ogni volta che riusciamo, in situazioni critiche, a curare e guarire i bambini nonostante tutto, e spesso aiutati da loro stessi in veste di improvvisati ma straordinari mediatori linguistico-culturali.
Anche se insuccessi e incomprensioni non sono mancati, ciò che ha sempre funzionato è l’aver cercato di inviare subito segnali univoci di disarmo e di accoglienza - a volte basta un semplice sorriso – e la presa in cura è avvenuta ed è scattata quella relazione empatica con le famiglie che ricompensa della fatica fatta. Come non essere felici di fare i pediatri? 
Un episodio? Scelgo quello di Ashraf (nome di fantasia), 10 anni, appena arrivato alcuni anni fa dalla Siria, uno di quei bambini che voi di Save vedete in ogni parte del mondo.


Ashraf entrò in ambulatorio barcollando perché era senza una gamba, dilaniata da una granata durante un raid aereo. Nonostante questo si fece avanti camminando deciso su due vecchie grucce e saltando da solo sul lettino.
Completata la visita e pianificato qualche esame, era stato accompagnato fuori dalla madre. Poco dopo una gran botta. Ashraf era scivolato e caduto. Avrà battuto la testa? Corro fuori, ma niente di serio, colpa della gomma di una delle stampelle che si era consumata e lo aveva fatto scivolare. Eppure si rialza fiero, mi saluta e si mette a brandeggiare una delle grucce come fosse una sciabola.


Ecco una delle grandi lezioni che ho avuto dai bambini “vulnerabili”, quelli a cui il destino può chiedere di duellare con la vita con una gamba sola ma che non mollano mai, cadono ma si rialzano e guardano al futuro diritto negli occhi. 


Se solo noi abitanti della vecchia Europa fossimo disposti a farci scombussolare le nostre sicurezze – eccole, le nostre stampelle - avremmo molto da imparare dai bambini e guardare alla vita e alla storia con i loro occhi.

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