Centri di detenzione in Libia: la testimonianza del fotografo Alessio Romenzi
I centri di detenzione in Libia sono raccontati come un vero e proprio inferno dai migranti che riescono a raggiungere l’Europa. Quali sono le condizioni delle persone detenute in queste strutture? I migranti vengono torturati in Libia? Ne abbiamo parlato con Alessio Romenzi, fotografo che ha viaggiato in scenari di guerra e crisi umanitarie e che in diverse occasioni si è recato in questo Paese per documentare la condizione dei migranti in Libia.
La foto nell'articolo ci è stata data proprio da lui, per arricchire questo racconto.
Centri di detenzione per migranti in Libia: l’intervista ad Alessio Romenzi
Ecco le nostre domande sul lavoro del fotografo svolto fino ad ora nel mondo e in particolare in Libia, per raccontare la situazione dei migranti in questo Paese.
- Alessio Romenzi, tu sei un fotografo che ha viaggiato in scenari di guerra e crisi umanitarie. Cosa ti ha spinto a fare questo lavoro?
Sono un fotografo professionista dal 2010 e la mia attività si concentra spesso in Medio Oriente. Per alcuni anni ho fatto base a Gerusalemme, poi Beirut. Quindi ho avuto modo di seguire tutte le crisi che negli ultimi anni hanno attraversato Paesi come Palestina, Israele, Libia, Siria, Iraq. Mi concentro molto su queste tematiche e su queste zone guidato dalla grande volontà di conoscere meglio i fenomeni e poterli raccontare in modo, spero, corretto.
- Sei stato uno dei pochi ad essere stato più volte in Libia e ci sei tornato anche recentemente. Cosa hai visto? Cosa ti ha colpito di più?
In Libia negli ultimi anni sono stato molte volte per documentare il conflitto nel Paese. E poi mi sono concentrato molto sulla migrazione, quindi mi è capitato in diverse occasioni di avere accesso ai centri di detenzione per migranti, alle prigioni. E ho potuto verificare anche le condizioni al loro interno, condizioni che sono nella maggior parte dei casi disumane. Sono luoghi sovrappopolati, si parla di centinaia di persone che si trovano in strutture che potrebbero raccoglierne soltanto qualche decina. C’è un limitato accesso ai servizi igienici, all’acqua, all’igiene personale. Non sono consentite le visite di eventuali parenti. In questi luoghi i migranti sono segregati in attesa di un destino non chiaro, molto spesso con l’aspettativa che trovino i soldi per pagare una non legalizzata cauzione.
Ci sono stati episodi particolari che mi hanno colpito. Quando ero in uno dei centri di detenzione per migranti in Libia, c’erano molti migranti che evidentemente erano affetti da uno stato avanzato di scabbia ma non era permesso loro di accedere alle cure mediche, il personale medico semplicemente non aveva accesso alla struttura. Non c’era alcun intento di arginare il fenomeno, nonostante questa malattia sia particolarmente contagiosa.
Un’altra volta, in un altro centro di detenzione per migranti, c’era un uomo eritreo steso a terra che ci è stato indicato da altre persone che ero rinchiuse lì. Lui era in condizioni disperate e, anche lì, non era stato consentito l’accesso ai medici. Quindi abbiamo fatto noi in modo che andasse un dottore a visitarlo. Il primo medico ha diagnosticato solo febbre alta. Non ci siamo fidati e abbiamo chiamato un altro medico che, dopo analisi approfondite, ha invece diagnosticato la tubercolosi. Quest’ultimo è stato un caso estremamente fortunato, perché poi ho saputo che questo malato è stato curato ed è guarito. Ma questo solo perché io era di passaggio lì e ho chiesto che venisse visitato, ma chissà quanti ce ne sono che non hanno avuto questa fortuna e sono morti. Di queste persone nessuno saprà mai niente.
- Quali sono le condizioni delle persone nei centri di detenzione? I migranti vengono torturati in Libia?
Premesso che non ho mai assistito a torture, ho però ascoltato testimonianze di migranti in Libia su violenze a dir poco cruente. Di persone picchiate con spranghe di ferro, o di plastica squagliata addosso. Spesso con l’intento di spronare il migrante di turno a chiedere i soldi alla propria famiglia o a chicchessia per facilitarne il rilascio.
- Cosa pensi, alla luce di ciò che hai visto, che l’Italia dovrebbe fare a pochi giorni dal rinnovo degli accordi con la Libia?
L’Italia dovrebbe mettersi una mano sulla coscienza perché finanziare la Libia affinché potenzi la “fantomatica” Guardia Costiera Libica per riportare i migranti in Libia significa essere complici a tutti gli effetti. Quando la Guardia Costiera Libica riprende i migranti in mare si parla di “salvataggi”, “recuperi” ma c’è un problema di carattere lessicale: quelli sono arresti. Una volta prese le persone, vengono portati in questi centri che di fatto sono prigioni.
Incredibilmente alcuni politici hanno provato a chiamare questi luoghi “centri di accoglienza”, ma tutto si respira lì dentro meno che l’accoglienza. E noi ne siamo complici. Il fatto che la mano non sia la nostra non significa che non abbiamo la responsabilità di cosa succede ai migranti in Libia. Il memorandum con la Libia semplicemente deve essere cancellato. E vanno fatti passi in direzione del rispetto dei diritti degli essere umani.
- Nel tuo ruolo di “testimone” hai la responsabilità di raccontare cosa accade in paesi lontani. Quanto pensi che una foto possa ancora scuotere l’opinione pubblica in un’epoca di fake news e di assuefazione alle immagini?
Ci sono troppe notizie non verificate, dovremmo riuscire a riqualificare il giornalismo di qualità. E proprio il giornalismo dovrebbe filtrare notizie e foto in modo che all’utente finale arrivino come un fatto incontestabile. Le foto possono cambiare le opinioni? Assolutamente sì. Non so dirti l’entità di questo cambiamento, ma la foto obbliga ad essere presenti e questo presta meno il fianco a eventuali contestazioni.
- Prossimi progetti?
Continuare a lavorare sull’immigrazione perché è un fenomeno dei nostri tempi, di portata globale. Cercherei di concentrarmi meno sui punti di origine dell’immigrazione ma sui punti di accoglienza e arrivo per documentare come le persone che arrivano in Europa vengono poi integrate. Penso che un ragionamento del genere possa fare luce su eventuali passi da fare in futuro in senso positivo, spero.