Uganda, emergenza profughi dal Sud Sudan - Dall’altra parte della frontiera
Il mio viaggio tra la popolazione del Sud Sudan è iniziato esattamente un anno fa, nel marzo 2013.
A quel tempo mi fu affidato un incarico come Coordinatrice del Settore di Educazione in Emergenza in uno dei 10 Stati di cui è costituito il Paese: Jonglei State. Parlare di Jonglei, già un anno fa, significava parlare di guerra, di sfollati (IDPs), di emergenza umanitaria. Fin dalla nascita del più giovane Paese del Continente Africano (9 luglio 2011), lo Stato di Jonglei ha infatti rappresentato la bomba ad orologeria che da un momento all’altro avrebbe potuto far precipitare il Paese in una guerra globale, definita in modo approssimativo e parziale, guerra civile intertribale.
La situazione è di fatto precipitata nella seconda metà del 2013 con l’espandersi del conflitto e la fuga dei civili, non più solo nell’interno del paese, ma anche e soprattutto verso paesi limitrofi. Tra questi l’Uganda, che ha già accolto più di 101.000 rifugiati sud sudanesi, con un picco di arrivi registrato a partire da metà dicembre (65.000 persone). Il 65% dei rifugiati sud sudanesi in Uganda è costituito da BAMBINI.
Mi trovo in Uganda da 2 settimane, come membro del team di risposta all’emergenza umanitaria sud sudanese di Save the Children. Sono ad appena 20 km dal confine col Sud Sudan, nel distretto di Ajumani. Ogni giorno vedo arrivare al centro di ricezione ed identificazionedi Nymanzi camion di persone in cerca di pace. I bambini sono tanti, per lo più arrivano soli, non accompagnati, separati dalle loro famiglie. Sono gli stessi bambini che seguivo in Jonglei State un anno fa, cercando di garantire loro accesso all’educazione in qualsiasi modo possibile, creando spazi educativi temporanei e distribuendo materiali scolastici, dato che molte scuole erano a quel tempi sotto occupazione militare. A primo impatto, ai miei occhi loro sono sempre uguali, come io lo sono per loro: Kawaja ( straniera in lingua Dinka, la tribù maggioritaria). Siamo semplicemente dall’altra parte della frontiera. Ad un’analisi più attenta però mi rendo conto che sono solo io ad essere sempre la stessa, kawaja. Loro sono diversi. Lo sono formalmente: non più Sfollati ma Rifugiati. Lo sono nel loro vissuto, avendo affrontato un lungo viaggio pieno di peripezie e caratterizzato da profonde perdite affettive. I loro bisogni sono aumentati, lo dicono i loro occhi, lo raccontano le loro storie. Save the Children risponde a questi bisogni. Ci occupiamo innanzitutto di identificare i bambini che arrivano senza famiglia. Abbiamo avviato insieme ad altri partners internazionale il processo di riunificazione familiare. Distribuiamo coperte, vestiti, kit per l’igiene. Abbiamo attivato centri per attività ludiche, ricreative e di supporto psicologico nei campi dove i bambini vengono ospitati una volta ultimate le pratiche di registrazione. Il passo successivo sarà attivare percorse educativi. Lo richiedono i bambini, lo richiedono le famiglie. E’ sempre impressionante notare come in mezzo a tanti bisogni, sono proprio i rifugiati a parlare dell’importanza di essere riportati a scuola. In contesti di emergenza la scuola protegge i bambini da abusi e violenze, li aiuta a superare i traumi vissuti attraverso la socializzazione, il gioco e l’impegno. L’educazione è un diritto, non può aspettare. L’educazione è alla base di ogni percorso di pace. Educare significa non perdere generazioni, significa gettare la basi per un futuro diverso.