Violenza ostetrica e umanizzazione del percorso nascita
Si definisce violenza ostetrica un insieme di comportamenti che hanno a che fare con la salute riproduttiva e sessuale delle donne, come l’eccesso di interventi medici, la prestazione di cure e farmaci senza consenso, o la mancanza di rispetto per il corpo femminile e per la libertà di scelta su di esso. Questo tipo di comportamenti, dei quali si discute da quasi un ventennio e che si declina su tutto l’arco della vita femminile, assume una rilevanza particolare, per intensità e durata, in quello che viene comunemente definito percorso nascita e che riguarda quindi le fasi di gravidanza, parto e puerperio.
Questo percorso che, soprattutto in Italia, viene svolto prevalentemente in un habitat sanitario, è spesso gestito secondo un approccio seriale dell’assistenza, tutto orientato a salvaguardare le procedure di sistema, anche a scapito del benessere delle persone.
In questo senso, la violenza ostetrica si potrebbe configurare come una forma specifica, particolarmente odiosa, perché aggravata da un esito sessista, del più generale deficit di umanizzazione dell’assistenza sanitaria.
Alla generale carenza della componente di relazione “umana” che caratterizza l’impianto della relazione assistenziale in sanità, in favore di una presunta maggiore efficienza del sistema, si aggiunge una componente di sessismo, che va a colpire, non un pubblico indiscriminato di “pazienti”, ma una categoria specifica, composta da sole donne, accomunate dal fatto di non essere affette da alcuna malattia (salvo eccezioni), e rese particolarmente laboriose nella gestione da un atteggiamento poco remissivo, incline a mostrare il proprio disagio e la propria incertezza, a chiedere insistentemente sollievo dal proprio dolore fisico, o a esprimere, direttamente o indirettamente, il bisogno di capire cosa fare del proprio corpo prima, durante e dopo l’atto di farne uscire un figlio.
È bene specificare che si sta parlando di un effetto della cultura assistenziale e quindi di una fenomenologia ascrivibile al funzionamento di un sistema e non alla responsabilità di singole persone. Questa fenomenologia può essere considerata come un effetto combinato di due fattori principali: l’egemonia del cosiddetto paradigma bio-medico applicato al percorso nascita, che fatica a rendere significativi, nella prassi assistenziale, la relazione umana e, in generale, tutti gli aspetti non strettamente sanitari; e una cultura sanitaria ancora largamente analfabeta rispetto a una relazione con il corpo delle persone, e, in particolare con il corpo femminile, che non sia improntata alla semplice responsabilità di “guarirlo”.
Umanizzazione del percorso nascita
È dal 2010 che il binomio sicurezza e umanizzazione ha fatto la sua comparsa più vistosa nella riflessione sul percorso della nascita.
Le “Linee di indirizzo per la promozione ed il miglioramento della qualità, della sicurezza e dell'appropriatezza degli interventi assistenziali nel percorso nascita e per la riduzione del taglio cesareo», sono state approvate dalla Conferenza Stato Regioni del 16 dicembre 2010 e hanno segnato un punto di non ritorno nelle politiche sanitarie riguardanti la gravidanza, il parto e la salute complessiva delle donne e delle loro bambine e bambini nei primi 1000 giorni.
In questo documento si mettevano nero su bianco alcuni principi irrinunciabili, che partivano dalla considerazione, ovvia, ma non scontata, che la gravidanza e il parto, pur rappresentando un campo rilevante di intervento della sanità pubblica, non si configurano precisamente – salvo in alcuni casi – come una patologia da curare, ma come un percorso da accompagnare, garantendo la sicurezza clinica e l’umanizzazione dell’approccio assistenziale.
I principi irrinunciabili
- Chiudere i centri nascita più piccoli (quelli con meno di 500 parti all’anno), considerati meno sicuri;
- garantire misure di sicurezza per il trasporto d’urgenza materno e neonatale;
- limitare il ricorso al parto cesareo (più rischioso per la mamma e per il bambino) secondo un principio di appropriatezza clinica e non di necessità organizzativa;
- favorire la continuità tra ospedale e territorio per assicurare al nucleo familiare un accompagnamento anche dopo la nascita;
- tutelare la salute mentale dei genitori prevenendo esiti più o meno severi di ansia e depressione, ma anche operando per garantire condizioni di travaglio e parto confortevoli, con un’adeguata cura degli aspetti di riduzione del dolore attraverso misure farmacologiche o psico-motorie;
- assicurare un percorso di presa in carico preventivo attraverso l’azione di presidi territoriali di prossimità, quali i consultori familiari;
- supportare la fase delicata del puerperio attraverso la pianificazione di controlli periodici, anche domiciliari, della salute di mamma e bambino;
- attivare un intervento sistematico di monitoraggio e raccolta dati sul percorso nascita attraverso le Schede di Dimissione Ospedaliera (SDO) e l’azione di Comitati e tavoli di lavoro nazionali e territoriali, allo scopo, sia di favorire la ricerca demografica ed epidemiologica, sia di fornire ai decisori politici informazioni adeguate per calibrare eventuali interventi correttivi in sede nazionale, regionale e locale.
Il disegno delle linee guida del 2010 era decisamente un buon disegno: attento alla complessità della materia; chiaro nella definizione delle responsabilità; completo per la sua attenzione contestuale agli aspetti clinici e a quelli umani di un percorso delicato che riguarda diverse centinaia di migliaia di persone ogni anno.
Tuttavia il disegno del 2010 ha avuto uno sviluppo realizzativo molto discontinuo, per non dire deficitario, caratterizzato da una profonda disomogeneità tra i diversi territori del paese e penalizzato da una condizione molto diffusa di dissesto finanziario delle casse regionali per le spese sanitarie che ha reso impossibile – a detta delle Regioni – uscire dal perimetro angusto dell’ordinaria amministrazione e del ripianamento.
Quella che sembrava quindi essere una luce accesa sulla peculiarità del percorso nascita rispetto alle procedure standard dell’assistenza sanitaria pubblica, sì è fatta, nel tempo, sempre più opaca.
Dopo 12 anni il bilancio delle linee guida è assai controverso. Se i parametri di sorveglianza sulla mortalità materna e neonatale sono tra i più soddisfacenti nel panorama europeo, non si può dire altrettanto della cosiddetta umanizzazione del percorso nascita.
L’attenzione alle persone, alle coppie, alle bambine e ai bambini sembra concentrata sull’urgenza di un esito positivo della transizione di un corpo fuori da un altro, con il minor numero di effetti collaterali e disagi e, possibilmente, nel minore tempo possibile.
Il programma Fiocchi in Ospedale
Il nostro programma Fiocchi in Ospedale, che pur nasce e lavora con un’intenzionalità diversa rispetto a quella del contrasto delle violenza ostetrica, opera in modo indiretto come fattore di mitigazione di quello che potremmo definire un approccio infrastrutturale alla maternità, secondo il quale la nascita è un’operazione puramente produttiva e meccanica, da fare certo a regola d’arte, compatibilmente con le risorse disponibili, e sempre nel rispetto di un ritmo dettato dell’efficienza della struttura, dalla necessità di liberare posti letto, e di portare a compimento le produzioni nel modo più rapido possibile.
Questa logica, esula assolutamente dalla qualità, disponibilità, gentilezza e professionalità dei singoli operatori sanitari, salvo casi specifici di reato che sono ovviamente tutelati dalla legge. È il sistema che si muove con questa intenzionalità e che la riproduce in ogni sua articolazione, dando vita a una standardizzazione più o meno omogenea su tutto il territorio nazionale, aggravata da condizioni di dissesto, corruzione e ritardi di specifici territori.
Molte sono le voci e le analisi scientifiche relative all’ospedale come istituzione spersonalizzante, dove le persone diventano il nome della loro malattia, dove sei costretto a fare colazione alle sei del mattino per venire incontro alle esigenze del cambio turno, e dove, in generale, quello che eri prima di accedere – una persona, una professionista, uno studente – non esiste più, viene messo da parte fino al momento delle dimissioni.
Ancora una volta, forse, ripartire dal corpo delle donne può offrire una chiave di lettura interessante per una riforma culturale profonda dell’assistenza sanitaria nel nostro paese.