Le storie di famiglie e bambini costretti a vivere nei campi della Grecia
Le razze non esistono, esiste solo una specie, quella umana. E dovrebbe esistere solo un'infanzia, quella serena, protetta e felice.
Purtroppo, però, ogni giorno dobbiamo raccontare storie di bambini costretti a vivere in condizioni difficili, senza protezione, educazione o cure adeguate. Sono bambini la cui infanzia è stata negata e, tra questi, sono migliaia i minori migranti che sono stati costretti a fuggire dal proprio paese insieme alle famiglie per scappare da guerre, violenze, povertà.
A un anno dall’accordo stipulato tra Unione Europea e Turchia, pensato per ridurre il numero di migranti e rifugiati “irregolari” verso l’Europa, si contano migliaia di famiglie, uomini, donne e bambini bloccati e costretti a vivere nei tanti campi profughi delle isole greche. Le conseguenze sulla salute fisica e psicologica dei bambini sono drammatiche: sono aumentati i casi di autolesionismo e tentativo di suicidio, aggressività, ansia e depressione a causa del degrado progressivo delle condizioni sulle isole greche, dove sono trattenuti circa 13.200 richiedenti asilo in condizioni disumane.
Ecco alcune delle loro storie, raccolte nel rapporto “Tra autolesionismo e depressione – L’impatto devastante dell’accordo UE-Turchia sui bambini migranti e rifugiati”.
Bambini spaventati
Farzin*, 12 anni, e suo padre Babak* sono originari dell’Iran e negli ultimi cinque mesi hanno vissuto in un campo profughi sull’isola greca di Chios. Stavano dormendo quando una notte è divampato un incendio.
“Qualcuno ha appiccato un fuoco ma non so chi sia stato”, ci racconta Babak. "Ci siamo spaventati e abbiamo dormito nel parcheggio per 14 giorni. Non ero tanto spaventato per me ma per mio figlio. Il suo comportamento è cambiato da quella notte. Ha molta paura, non riesce a dormire bene e ha spesso incubi.
Ho paura a farlo girare per il campo da solo perché qualcuno mi ha raccontato di una ragazza sola che è stata minacciata. A nessuno piace vivere in queste condizioni. Odio me stesso e odio l’Europa”.
“Il campo non è bello” ci dice il piccolo Farzin. “Dopo le notti trascorse a dormire nel parcheggio mi sono ammalato a causa del freddo”.
Luoghi che somigliano a prigioni
Beyar* ci ha raccontato la sua storia con le lacrime agli occhi. Ha lasciato Sinjar, in Iraq, con la moglie e i quattro figli nel 2014, quando gruppi armati hanno attaccato il suo villaggio. Quando lo abbiamo ascoltato, a settembre del 2016, aveva già vissuto per più di sei mesi sull’isola greca di Leros. Ci ha detto che le condizioni erano così brutte da indurlo a decidere di riportare la sua famiglia in Iraq, nonostante i pericoli nel Paese.
Ci ha raccontato: “ci hanno spostato dal centro di Moria a Lesbo dove spesso, però, scoppiavano risse con pietre e bastoni che spaventavano i bambini. Quindi ho chiesto un trasferimento. Ecco come siamo arrivati a Leros, ma anche qui la situazione è molto grave, abbiamo visto cose orribili e non c’è alcun tipo di aiuto. Qualche settimana fa abbiamo persino sentito parlare di abusi ai bambini nel campo.
Lascio i miei figli giocare solo fuori dal container o quando sono insieme agli operatori di Save the Children. In qualsiasi altra situazione dobbiamo stare con loro, dobbiamo tenerli d’occhio. Questa cosa li spaventa molto.
Non c'è niente qui che mi faccia sperare per il futuro dei miei figli. Sono trascorsi sei mesi senza ricevere nessun tipo di aiuto o fare alcun colloquio per l’asilo. Ecco perché torniamo in Iraq”.
Mina*, la figlia di sette anni di Beyar ci dice: “Questo posto è una prigione. Io voglio solo tornare a casa, non voglio stare qui”.
La paura di rimanere soli
Lina* e le due figlie, Rukia* e Noora*, si trovavano nel campo di Chios quando è scoppiato un grave incendio. Da allora sono state trasferite in un appartamento sull’isola.
“Quando è scoppiato l’incendio, le bambine stavano dormendo. Non riesco a descrivere a parole quanta paura abbiano provato quella notte e da allora soffrono di problemi psicologici. Ancora oggi, quando Rukia deve spostarsi in cucina o andare in bagno vuole che la accompagni o che la aspetti fuori dalla porta.
Anche quando eravamo nel campo, non riusciva a sopportare l’idea di rimanere da sola. Entrambe le bambine sono estremamente ansiose.
Per fortuna, adesso stanno meglio. Non posso dimenticare l’aiuto di Save the Children e dei suoi partner, l’attenzione che hanno dato alle bambine e l’aiuto psicologico ci hanno fornito. Le hanno aiutate tantissimo”.